Eccomi qui, ai piedi della parete nord del
Latemar, sopra di me solo roccia e cielo e nuvole; dietro un fitto bosco di
abeti, magico groviglio di favole e leggende e mito.
Per la prima volta sulle
Dolomiti senza la compagnia dei miei genitori, e non nego che ciò mi fa un
certo effetto, dopo più di venti vacanze su queste stesse montagne passate
insieme.
Tutto ciò mi fa riflettere; la
solennità e la possenza della roccia aiutano a sciogliere il bandolo della
matassa:
l’uomo viene e va, la natura no.
Eppure siamo noi e la nostra
debolezza a creare scompiglio all’interno e fuori dal mondo; la natura si muove,
soffre e continua senza lamentele la sua esistenza, sapiente del proprio
costante e lento cambiamento. Non piange le perdite come noi, perché è più
forte di noi, conosce più segreti di noi, è meno corrotta di noi…
Sotto i muri verticali del Latemar il
forte vento fa cadere qualche sassolino dalle maestose pareti, le belli e
decadenti pareti di dolomia: i pilastri di roccia si stanno piano piano sempre
più sgretolando, e noi, anime entranti, abbiamo appena superato il “cimitero
degli elefanti”: una pietraia infinita da far venire i brividi solo a passarci
in mezzo, tra il vento e l’eco prodotto dal vuoto intorno a noi. Toc, puc, crop, e la pietra è giù nel
labirinto, ha occupato uno spazio libero nel cimitero della montagna.
Ritorno alle origini
alla pura
contemplazione della natura, alla riscoperta di quanto sia divertente faticare
con le gambe e non solo con le dita.
Doccia fredda di umiltà a chi, come
me, si era quasi scordato del perché e come abbiamo iniziato a scalare; di
quanto sia bello respirare a pieni polmoni dopo aver accelerato i battiti; di
quanto sia bello non guardare sempre in alto una singola striscia di prese, ma
abbracciare la totalità con lo sguardo, cercando di registrare qualsiasi
colore, riflesso, animale, pianta, sorgente del mondo attorno a noi, e poi, sì,
sognare di arrivare lì dove hai guardato per tutta la durata del tragitto,
mentre immaginavi come sarebbe stato, cosa avresti visto.
Camminare verso una purificazione dai
meccanismi-gabbia della società, dal lavoro allo sport, passando per il futuro
incerto, i rapporti umani, i propri progetti e timori, i probabili, inevitabili
errori e le miracolose conquiste.
Ora l’importante è stare
qui sotto e godersi questo momento.
Ora l’importante è essere graffiato dal gelido vento estivo che cavalca l’aria d’alta quota, sottomettersi a questa realtà composta di irraggiungibile semplicità: polvere, sassi, freddo, orizzonte, nuvole, grigiore. E sentirsi felici, oltre l’inadeguatezza dei primi giorni, lontano dai deliri materialistici del ragazzo consumista.
Questa volta non ho bisogno di vincere una fantomatica battaglia contro me stesso, la roccia, il mio passato ecc., ma di perdere (sì proprio di perdere) il confronto con chi non ha bisogno di confronti, perché consapevole della propria esistenza, dei propri cambiamenti.
Non bisognerebbe mai affezionarsi alla bellezza e ai propri traguardi, perché la natura non piange una roccia che si sgretola, un fiorellino che muore o la morte di un animale.
Ora partirò, e tutto sarà diverso.
Come quel piccolo granello di roccia che si stacca dalla parete della sua esistenza per andare a risiedere lontano, indipendente. Toc, puc, crop, il sassolino rotola, rotola giù fino a che magicamente si ferma. Che sia io quel sassolino appena osservato? Già si confonde nella pietraia, già si è ambientato fra i suoi simili, quel simpatico e bravo sassolino!
Dovevo tornare in montagna per volgere lo sguardo ai veri meccanismi della vita…
Mi sono lasciato alle spalle il bosco di Carezza per entrare deciso nel labirinto del Latemar. Cammino ormai da più di due ore, ricurvo per il peso dello zaino, come un monaco in continua adorazione del suo dio.
Passo in mezzo a questa insenatura, e tutto mi sembra così insensato. Impossibile rimanere impassibili, attratto tasto la pietra: è fredda; la annuso: sa di storia, sa di vite: emana un profumo glaciale indescrivibile, muschio e pietra, un fresco intenso assale le mie narici.
Rimarranno solo i ricordi di questa
splendida settimana?
Ora partirò e tutto sarà diverso…
Sarà stato il caso o il mio
particolare momento storico, ma la metafora della montagna come ostacolo della
vita mi è balenato agli occhi immediatamente, il tutto a pochissimo dalla mia
partenza.
E proprio lì dove conservo i ricordi
delle estati più belle, proprio lì ho compreso la difficoltà di dire “addio”;
proprio lì ho compreso la dannosità di essere isole e la fortuna di essere
montagne.
Che da sassolino diventi
una montagna allora.